Durante il servizio militare, dopo il giuramento, nell’ultima settimana di un Agosto mite, nell’attesa di andare alle varie destinazioni, alla mia Squadriglia venne dato un compito. Eravamo otto uomini, selezionati, a gaso ma selezionati, ed eravamo, tutti ed otto, ancora vestiti con la maglia, a maniche corte, verde ed i pantaloncini corti, color Cachi.
I pantaloncini color cachi non fanno parte della divisa estiva dell’esercito, e nemmeno di quella invernale, ma, a causa di un errore nella fornitura, non erano ancora arrivate le divise estive, e dato che, per le condizioni metereologiche di agosto, non era possibile utiilizzare le divise invernali – era fresco e ventilato, ma non così fresco – il Comando decise di ordinare seicento pantaloncini corti color Cachi. O forse li avevano già in magazzino.
Seicento ragazzi vestiti in calzoni corti color Cachi, davano, all’occhio, una ambientazione coloniale, una piccola copia dell’Etiopia, degli anni trenta, con i militari in attesa di esser richiamati in patria. L’odore di benzene che arrivava dalla raffineria, poco distante dalla caserma, aumentava la sensazione di essere in una parte del mondo, e del tempo, dimenticato.
Era una giornata ventosa, ed i nostri capelli non ne risentivano particolarmente.
Il compito assegnatoci era semplice, nell’ottica di garantire alla Caserma ed alla piazza d’armi, ordine e disciplina, dovevamo spazzare le foglie cadute sul piazzale d’armi. Raccogliele e buttarle.
A fine agosto, gli alberi che decoravano la caserma, dei castagni, avevano pensato di anticipare la caduta delle foglie, e così il piazzale era invaso da queste foglie marrone chiaro, un colore talmente simile al color Cachi dei pantaloncini, da far sembrare una scelta ponderata, quella degli Alberi di far cadere le foglie, come se nno ci volessere far sentire soli, gli unici in quell’orizzonte bianco sporco tra l’intonaco dei muri e lo sterrato della piazza.
Il vento continuava a spostare le foglie da una parte all’altra della piazza d’armi.
Ci vennero affidate la armi: scope in saggina, con le quali dovevamo raccogliere in mucchi le foglie, per poi inserirle nei sacchi neri.
Nel bianco sporco dello sterrato della piazza, si distinguevano macchie color Cachi, verde e marrone chiaro, in movimento, gruppi di foglie seguite da uomini, metà verdi, metà beige, con delle scope in mano e dei sacchi neri, usati come retini da farfalle giganti, che si stagliavano come toghe nere di preti nella neve.
Il vento continuava a spostare le foglie da una parte all’altra. E noi dietro. Da un’altra ad una parte. E noi dietro.
Il tutto era ridicolo, questi otto uomini, che poi erano otto ragazzi, in pantaloncini corti, a sottolineare il fatto di essere ragazzi, con una scopa di saggina in mano, come un’arma giocattolo, che inseguivano foglie trasportate dal vento, una immagine anche poetica, con l’unico obiettivo di riunirle in un mucchio ed inserirle in un sacco nero.
Ed il vento continuava a spostare le foglie da una parte all’altra della piazza.
Ogni nostra strategia per combattere il nemico fogliante non riscoteva nessun successo. Non saremmo mai riusciti a fare ordine, forse riuscimmo a raccogliere un sacco di foglie, nel senso di un sacco solo, non di tante foglie.
In quel momento non pensavo che l’immagine di questi otto uomini, che lottavano contro il vento, la natura, solo per obbedire ad un ordine, – un ordine dato solo per impiegare il tempo, per ingannare l’attesa – , non avrei mai pensato di quanto, nella vita, nella quotidianità, avrei svolto attività altrettanto vane e ridicole, di quanto l’esercito sia riuscito ad esercitarmi – in maniera formativa e profetica – in tali, inutili, attività.
Kristian Fabbri
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